Il Concilio di Trento in prospettiva storica
di mons. Iginio Rogger

    A dire il vero il luogo più appropriato per toccare il tema Concilio sarebbe il centro, la piazza Duomo, il Museo Diocesano Tridentino che ho l'onere ancora oggi di dirigere e che, non a caso, è stato pensato nel 1963 (in occasione del quarto centenario della conclusione del Concilio di Trento, che è stato celebrato in modo grandioso dalla regione autonoma e dal comune) e che è stato istituito in quel palazzo che era l'antico palazzo residenziale dei vescovi di Trento, riattato e adattato ad essere sede del Museo Diocesano, proprio con l'intenzione di erigere un monumento del centenario del Concilio di Trento. In quella sede abbiamo disposto anche elementi iconografici fondamentali che, purtroppo, oggi, con queste moderne forme di proiezione, non ho portato con me, anche per ragioni di brevità. Al di là di questo, chi chiedesse più esplicitamente un aiuto per ritrovare a Trento ciò che ricorda il Concilio o un aiuto per trovare il luogo del Concilio a Trento, una visita al museo diocesano sarebbe la cosa più appropriata, e, in questo senso, contate pure sulla mia misera disponibilità in quella sede, per puro dovere professionale. Ma non posso trascurare l'occasione per menzionare una pubblicazione che proprio in questi giorni è uscita, promossa dal Comune, dall'Assessorato alla cultura del Comune di Trento, “Il Concilio di Trento, i luoghi e la memoria”, un testo molto ben fatto che, non solo si premura di identificare e anche un po' di illustrare, i luoghi dove più propriamente il Concilio fu tenuto. Badate bene, anche a questo riguardo, in città, a Trento, ci sono delle vecchie impostazioni da correggere: ancora oggi c'è qualcuno che indica la chiesa di Santa Maria Maggiore come la chiesa del Concilio di Trento, mentre nel frattempo l'edizione critica degli atti del Concilio colloca tutte le sessioni nel Duomo di San Vigilio e in una posizione ben precisa nel Duomo. Ma ecco il libro appena comparso, tornare con più chiarezza e con migliore informazione su questo e non posso fare a meno di segnalarlo.
    Se vogliamo, ci sarebbero due temi diversi da trattare, forse in sede diversa: uno, il Concilio di Trento, l'altro, la città di Trento come ospite del Concilio. Penso che non sbagliamo per ora a trattenerci primariamente sul primo, pronto a dare tutte le risposte qui e altrove anche sul secondo tema.
    La prima cosa che devo dire (e mi rendo conto di quanto sia necessario dirlo e ridirlo e non presupporlo già scontato e acquisito) è che la visuale del Concilio di Trento, nella nostra età, nella mia non verde età, direi dalla meta del '900, è andata notevolmente cambiandosi; si è ristrutturata fortissimamente la visuale del Concilio, il modo di conoscerlo e di abbordarlo. Come è avvenuto questo?
    Vedete, fino a metà del secolo ventesimo, si aveva, e, per chi vuole, si può avere ancor oggi (ognuno si tenga poi l'immagine che vuole), una visione molto vincolata del Concilio di Trento, molto codificata. Se vogliamo riassumere un momento che ha coniato quel modulo di nozioni sul Concilio di Trento, risaliamo pure alle celebrazioni del centenario del Concilio di Trento che furono celebrate solennissimamente anche a Trento nell''800, nel 1845, terzo centenario dell'apertura del Concilio di Trento, e 1863 terzo centenario della conclusione del Concilio. Una visuale, ho detto, molto vincolata, dovuta al fatto che uno studio storico onesto e radicale non era stato ancora fatto, e per ragioni anche comprensibili, che però hanno avuto la loro conseguenza. Cioè gli atti del Concilio di Trento, la principale documentazione, gli atti copiosissimi, non solo delle sessioni, cioè dei momenti culminanti, le 25 sessioni del Concilio di Trento e che si ritrovano in ogni elementare manuale con i decreti di fede e di riforma, no, gli atti delle congregazioni generali, dei dibattiti quotidiani, del plenum dei vescovi presenti, gli atti delle molte commissioni di teologi, di esperti in diritto canonico, con le ragioni pro e contro, una documentazione enorme, finito il Concilio, non sono rimaste a Trento.
    Il Concilio aveva una dirigenza in nome della Santa Sede, quindi sono stati portati a Roma, e sono stati, per ragioni comprensibili in quel tempo, semplicemente sequestrati. Erano custoditi tra le cose più gelosamente custodite dell'archivio segreto vaticano e per secoli. E nemmeno nelle sale della biblioteca vaticana o nell'archivio, ma in Castel Sant'Angelo, nella fortezza. Per ordine di papa Pio IV, che è quello che per un verso ha il merito grande di aver approvato i decreti del Concilio di Trento, tutti, contrariando anche qualche opinione avversa nel suo ambiente che avrebbe preferito che venissero selezionati quelli che il papa approvava e gli altri no. Invece tutti approvati.
    Però! però con una esplicita condizione: che nessuno al mondo fosse in grado di interpretare i decreti del Concilio di Trento tranne che la Santa Sede, che per questo motivo istituiva una congregazione, cioè un dicastero apposito, la Congregazione del Concilio, l'unica autorizzata a dare l'interpretazione autentica di quei decreti.
    Dunque qui si tratta, come tutti vediamo, di un'interpretazione che vuol essere autentica, ma nel senso dell'autorità che, in questo senso, può anche interpretare contro la lettera stessa dei documenti, dicendo: adesso quello che vale è questo aspetto. Questo è un regime che valse nella interpretazione del Concilio di Trento.
    Naturalmente una ricerca più sostanziale di come sono andate le cose: cosa sia stato detto e deciso, quali sono stati i motivi, come sono stati poi formulati e ridimensionati, era pur sempre nel desiderio di tutti, ma anche qui la storiografia ha avuto le sue disavventure, prima attraverso una storiografia piuttosto aggressiva di quel servita Paolo Sarpi, che era nell'ambiente veneziano, con una storia molto polemica che ha cercato di decifrare questa macchina come artificiosamente guidata dal papa per evitare che il Concilio in qualche maniera decidesse qualcosa che non gli piaceva. Ad essa, da parte della curia papale, è stato contrapposto un trattato ad opera del gesuita Pallavicino (1651) che, quello sì, ha avuto la disponibilità dei documenti, ma li ha utilizzati primariamente per dimostrare che Paolo Sarpi è un mentitore, che la storiografia fatta da quello è tutta tendenziosa.
    Questa era la condizione della storia del Concilio di Trento che noi possedevamo. C'era il famoso storico protestante dei papi Leopold Ranke, metà '800, che diceva chiaro: per ciò che riguarda il Concilio di Trento, uno storico può fare anche a meno di impicciarsene, perché quelli che potrebbero farla questa storia, cioè quelli che hanno i documenti in mano, non la vogliono fare, quelli che invece la vorrebbero fare non la possono fare, perché non hanno di documenti a disposizione.
    E qui il fatto capitale è che sulla fine del secolo XIX, Leone XIII, ha aperto tutto questo complesso di documenti dell'archivio vaticano mettendoli a disposizione di studiosi, tanto cattolici come non cattolici, e che dall'inizio del secolo XX è iniziata addirittura una una edizione critica in grande dei documenti del Concilio di Trento ad opera della società Göresiana, la società degli studiosi cattolici germanici, una edizione splendida, esemplare, anche dal lato filologico, di cui qualche volume sta ancora comparendo (l'ultimo è comparso, mi pare, tre anni fa).
    Finalmente siamo entrati in un'altra forma di ragionamento e, naturalmente, su questa base, finalmente è spuntato anche qualche vero storico del Concilio di Trento che tratta l'argomento non per ragioni apologetiche, non per difendere ad ogni costo, ma per mettere in luce ciò che è accaduto e per formulare un giudizio storico vero e proprio. Non mi dilungo ulteriormente, ma devo ricordare in questa occasione quello che è il personaggio chiave di questa storia del Concilio di Trento finalmente è comparsa: Uber Jedin. Personaggio che a Trento hanno conosciuto molto bene. Già nel 1945, nella ricorrenza del quarto centenario della prima apertura, si pensava di fare una bella commemorazione del Concilio di Trento; se ne occupava l'allora direttore del settimanale diocesano, mons. Giulio Delugan. Jedin era già a contatto, era già andato e venuto più volte a Trento già prima del 1940. Ho avuto la fortuna di trovarmi con lui nella stessa casa per diversi anni a Roma al Collegio Teutonico in Camposanto negli anni in cui maturava questa idea e di stargli vicino anche successivamente quando nel 1949 è diventato ordinario (ha avuto la cattedra di storia della Chiesa all'università di Bonn), ma anche per la celebrazione del 1963, Jedin è stato così presente, spiritualmente e fisicamente, a Trento, al punto che, con grande merito, ha ottenuto sia la cittadinanza onoraria di Trento, cosa abbastanza rara a quel che vedo, e insieme il canonicato onorario di Trento. È stato veramente considerato come cittadino di Trento. Anche la sua biblioteca personale è finita a Trento, Jedin è morto nel 1980, non senza aver dato qualche ulteriore prova della sua affezione a Trento perché, quando nel 1970 circa, la provincia di Trento, ha fondato quello che ancora oggi, con un nome sempre un po' riadattato si chiama Istituto Storico Italo-Germanico, il suo primo presidente fu Uber Jedin.
    Dunque abbiamo finalmente sul tavolo questa Storia del Concilio di Trento, in quattro volumi, tradotti in italiano dalla Morcelliana, e tradotti in quasi tutte la lingue moderne. Jedin stesso la caratterizzava dicendo: il Concilio di Trento oggi non è più un oggetto controverso, perché era altrimenti uno dei tipici temi sui quali ci si contrapponeva. Da quando le fonti della sua storia sono a disposizione di tutti nella edizione del Concilium Tridentinum, noi siamo in grado di individuare la sua posizione storica e di esaminare, realisticamente e sobriamente, come ha risolto i problemi che gli erano stati assegnati.
    Certamente lo spostamento di prospettiva è stato gigantesco, ricordo come Jedin stesso, che in un primo momento progettava di articolare in quattro volumi la storia del Concilio di Trento, un volume per ognuno dei tre periodi del Concilio di Trento e un ultimo volume per l'applicazione del Concilio di Trento (si chiamava la riforma tridentina), gradatamente è andato maturando l'idea su cui parlavamo tante volte, che in realtà, la cosiddetta applicazione del Concilio di Trento, è un'altra storia, è condotta da altri criteri e appartiene a un'altra situazione e quindi egli puntualmente ha deciso di fermarsi alla conclusione del Concilio di Trento, perché ciò che viene dopo, utilizza bensì i decreti del Concilio di Trento, però secondo altri criteri e in un altro contesto; di questo si può discutere se sia controriforma o riforma cattolica, ma non è puro e semplice Concilio di Trento.
    Questo per dire che oggi per chi prende per mano l'argomento, il Concilio di Trento non è puramente contrapposizione, è molto meno antiprotestante di quello che, invece, leggendolo in quell'altra chiave, si era soliti dire e affermare (questo anche per amore di un onesto colloquio culturale e soprattutto di un onesto colloquio con le altre confessioni religiose).
    Nel 1863, quando fu così solennemente celebrato il terzo centenario del Concilio di Trento, ci fu un gruppo di professori, compresi sacerdoti di Rovereto, che curò per quell'occasione, un'edizione speciale del libro di Antonio Rosmini, “Le cinque piaghe di santa madre Chiesa”. Fece un'edizione speciale, pagandola di propria tasca, e mandò ai padri, convocati a Trento per la solenne celebrazione, questa edizione che si differenziava, (cominciava già allora, in campo cattolico, una certa differenziazione da quello che era l'immagine consueta) con una prefazione anche abbastanza pungente. Naturalmente fu accolta male quanto mai, al punto che (anche se non è stata bruciata per ordine vescovile), alcuni fanatici, nel cortile interno dell'allora residenza vescovile (si trovava a Trento dove ora c'è la Banca d'Italia) ha proceduto a bruciare, con un certo clamore, le copie quell'edizione. Questo segna la differenza di modi di sentire a distanza di cento anni.
    Mi pare che chiunque prenda in mano il Concilio di Trento oggi, non dovrebbe dimenticarlo, perché non è più una cosa controversa, va trattata con criteri storiografici sine ira et studio, secondo le regole e la metodologia storica per arrivare a cogliere, per quanto è possibile, la realtà delle cose.
    Toccando un po' genericamente la realtà delle cose direi: la prima differenza che io incontro rispetto alle trattazioni precedenti è che, mentre prima mi sembrava già un'esagerazione cominciare a parlare del Concilio di Trento partendo dal 1517, cioè dalle tesi luterane di contestazione delle indulgenze, e poi di tutta la diatriba che ne è conseguita, perché insomma, o parliamo del Concilio di Trento o parliamo della rivoluzione luterana; (anche se in realtà l'una cosa si collega con l'altra), ora, se voi prendete in mano la storia del Concilio di Trento di Jedin, vi accorgete che il primo volume non è dedicato solo alla origine, alle discussioni protestanti, ma risale ancor molto più indietro, cioè rifà tutta la questione della riforma ecclesiale a partire dalla prima metà del quattrocento, con una serie di problemi scottanti, ma risolti così, tamponati, ma mai risolti del tutto, e quindi con replicate spinte di riforma, anche proprio da parte cattolica. Mi riferisco ad esempio a tutto il discorso del Savonarola in Italia e ad altre spinte di riforma che anche nell'ultimo concilio prima di quello Tridentino, quel Concilio Lateranense Quinto, che si chiudeva proprio nel 1517, dove voci di riforma erano venute fuori, però, inefficaci quanto mai. Per capire la situazione occorre veramente riprendere in mano tutto questo problema nella sua globalità, anche nella impostazione ecclesiale, anche nei modi di concepire e capire la realtà Chiesa, così fantomatica.
    Per quel che riguarda l'organizzazione siamo ancora di fronte ai problemi dello scisma di occidente e delle dichiarazioni conciliari di Costanza, dove si era riusciti a recuperare l'unità della Chiesa, però a patto di dichiarare in un concilio che:
    primo, il concilio è l'autorità suprema alla quale tutti devono sottostare, e non il papa, perché di papi ce n'erano già due o tre e andavano moltiplicando la frattura;
    secondo, che la realtà conciliare è indispensabile alla Chiesa e quindi, l'altro decreto di Costanza, che disponeva che, voglia o non voglia la Santa Sede, ogni 10 anni si dovesse fare un concilio perché la trascuranza di questa dimensione (“sinodale” diremmo oggi) è quella che porta tanti disastri nella Chiesa.
    Naturalmente anche in queste tesi portate avanti in modo radicale, si evidenziano inconvenienti su inconvenienti, però non si arriva, né alla rivoluzione luterana né al Concilio di Trento senza tener conto di questi precedenti.
    Su questo sfondo aggiungiamo pure un'altra cosa: nel '400 e nel '500 anche tra i cattolici (non è solo questione dei protestanti) non esiste un'idea abbastanza afferrabile e articolata di ciò che è la Chiesa. Guardate anche nei libri di pietà, l'Imitazione di Cristo, libro così devoto e cristiano del quattrocento, ma voi, la nozione di Chiesa, la trovate solo per dire l'edificio in cui si dice la messa. Qualcosa che tenda ad affermare più fortemente cos'è la Chiesa, chi la compone, come la si capisce, che rapporto ha con i sacramenti e con la celebrazione, che regole di autenticità della propria fede, è tutto un argomento che sfugge all'attenzione. Quindi non meravigliamoci di certe esagerazioni, di certe impostazioni radicali del protestantesimo.
    La fede! la fede è l'elemento che salva l'uomo, non altro! la giustificazione mediante la sola fede. L'errore sta in questo, escludere che altro, oltre che la fede salva l'uomo, l'errore sta nell'avere puntato solo sull'individualizzazione. E la fede da dove si attinge? dalla sola scrittura! la scrittura che il popolo di Dio non leggeva più da secoli, non veniva tradotta in lingua comprensibile, non affiorava nella celebrazione liturgica.
    La sola scrittura! c'erano delle cose più che necessarie, autentiche, però recuperate in modo rivoluzionario, unilaterale, radicale. Però, dall'altra parte, c'era una capacità per assimilare questo? per riportarlo nelle dimensioni giuste? in realtà, lì è scoppiato il grande dissenso. È come un incendio di un lampo! da qui la contestazione, neanche delle scritture, ma di un certo modo di gestire le indulgenze, sia le remissioni dei peccati ai viventi, sia le indulgenze per i defunti, che sapeva un po' troppo di traffico bancario. E tutto questo connesso con quella situazione spirituale e politica dell'Europa centrale di quel tempo.
    Vedete allora, come in questo contesto il discorso concilii-concilio, sembrava comunque la risoluzione, il punto a cui riferirsi per trovare la formula in cui tutti potessero ormai trovare la vera dottrina.
    Ci furono discussioni a non finire già prima del 1521, ma il grande momento esplosivo fu alla dieta di Worms, perché in questa situazione fin dall'inizio (meglio fin dal 1520-21), si trova implicato l'imperatore Carlo V, con il suo tipo di missione cristiana, tutore dell'unità dei cristiani. Ecco la grande esplosione alla dieta di Worms (1520). “Tutto il mondo chiede il Concilio” riferisce il legato papale, il Concilio è sentito da tutti, anche fuori dello schieramento luterano, come l'unica soluzione possibile.
    Allora bisogna domandarsi perché non è venuto subito questo concilio? Naturalmente c'è di mezzo il tipo di concilio che si avrà da fare. Perché Concilio è una parola, è una potenza, però ci sono mille modi diversi di intenderlo.
    C'è di mezzo tutta una situazione politica internazionale in Europa che implica molto, anche i modi di vedere, di sentire da parte della curia papale e dello stato pontificio, cioè il grande antagonismo tra Casa d'Asburgo, diventata in questo momento la potenza mondiale, il regno su cui non tramonta il sole, grazie a una fortunata combinazione di opportunità politiche, e la Francia, la grande contrapposizione. Ecco, allora, il primo tentativo: le diete dell'Impero. Perché l'Impero Germanico non è uno stato unitario, tutt'altro, è una congerie di staterelli piccoli e grandi, potenti e deboli, stati ecclesiastici e laici, dove si incrociano pareri molto diversi.
    Prima riunione (1522-23): dieta dell'impero dove i luterani, come i cattolici, concordano in questo, con una decisione di tutta la dieta imperiale: “ci impegniamo a stare a quelle che saranno le decisioni di un concilio, libero”. Ma cosa si intendeva per libero? certamente molti protestanti intendevano libero dal papa, i cattolici lo intendevano libero, cristiano, che si riferisca alla scrittura e non tanto a tante regole medioevali del diritto canonico e a certe consuetudini della vita della Chiesa che erano diventate piuttosto dannose e, altra condizione, quella che ci riguarda di più, in terra tedesca.
    Il discorso è riaffiorato nella seconda dieta di Norimberga (1524) dove, di fronte al ritardo di un concilio che non veniva e alla minaccia di fare un concilio nazionale in Germania, l'imperatore stesso, Carlo V si impegnava di farsi portatore di questo programma e già allora, guarda caso (ma non c'è niente di decisivo), veniva fuori anche il nome di Trento. Furono fatti diversi nomi, soprattutto nella zona di margine tra l'ambiente germanico e l'ambiente latino, ma insomma, poteva anche essere Trento, che poteva, al limite, figurare come terra tedesca pur essendo italiana (parola pronunziata in quel tempo senza dubbio da Bernardo Clesio, che nei consigli imperiali a quel tempo aveva la sua presenza). È appena un sintomo, perché non c'è stata nessuna decisione.
    È seguito, quello di cui noi non teniamo presente abbastanza, anche se l'abbiamo avuto in casa: il fenomeno della guerra rustica, della rivoluzione generale dei contadini contro i nobili, con i suoi programmi ultrademocratici anche in campo ecclesiastico, compresa la nomina dei parroci e l'imposizione delle regole secondo le quali dovevano predicare. In realtà ci fu un momento di febbre sociale e politica, dove, per fare un po' di ordine, a cominciare dalla posizione dei luterani, ci si è giovati dell'intervento forte dei landesfürsten, cioè dei principi territoriali, dei capi di questi vari stati, alcuni erano cattolici, altri erano protestanti. A questo punto essi hanno instaurato un ordine di tipo protestante, dalla amministrazione dei beni, alla destinazione delle rendite, alla nomina dei ministri, dei pastori ecc., e, naturalmente, si instauravano altre regole. È dopo il 1525 che abbiamo tutta una dialettica difficile, dove l'imperatore, pur portando avanti la sua idea che vuole comunque andare verso la riunificazione religiosa, in realtà ha dovuto cercar tutti i mezzi possibili. È l'era dei colloqui di religione, degli incontri ecumenici, per quel che allora si poteva fare, a cominciare dalla Dieta di Augusta, dal colloquio di Augusta (1530 fino al 1541) e così via.
    A questo punto, l'altro interlocutore da cui dipendeva se questo concilio ci fosse o non ci fosse, è il papa. Ma personalmente Clemente VII del concilio aveva troppa paura ed era una cosa di cui non si poteva neanche parlare. Se ne riparla con il papa successivo, Paolo III , di cui giustamente sono stati esaltati i meriti, che finalmente ha messo in positivo l'ipotesi del Concilio. Addirittura in un primo momento, pareva che alla corte papale (1537) si pensasse seriamente a un concilio dedito anche ai molti problemi di riforma, di riforma dei rapporti di competenze, soprattutto tra la Santa Sede e le chiese locali. C'è una commissione pontificia che è molto radicale nel formulare questi principi, il consiglio “de emendanda ecclesiae”, che non esita a dichiarare il principio che la radice di tanti mali e proprio dovuta all'esagerazione di una onnipotenza papale nella reggenza della vita delle chiese di tutto il mondo e da cui sono conseguiti infiniti inconvenienti.
    Naturalmente, entrando più specificatamente nel problema, si doveva scegliere, e qui, da parte papale, nasce la preferenza per una trattazione in concilio dei temi di fede e, invece, molta cautela nell'affidare al concilio problemi di riforma. Non mi diffondo ulteriormente su questo, la situazione però era già matura, cioè sono stati fatti anche dei primi tentativi di convocazione.
    Nel 1537 c'è stata una convocazione del concilio ecumenico a Mantova, che per ragioni più di politica locale (a un certo punto i duchi di Mantova non si sono sentiti sicuri abbastanza) è andato vuoto e trasferito a Vicenza nel 1538. Fu una convocazione papale, con i legati papali che hanno portato ovunque l'invito ad intervenire, compreso in Inghilterra. Si è giunti così nel 1541 dove, in occasione di un'altra dieta a Ratisbona, si era arrivati di nuovo alla discussione del luogo dove tenere il concilio. Certamente Trento non era nelle simpatie della Santa Sede, era un po' troppo a rischio, un po' troppo in terra tedesca e quindi poco controllabile. Tuttavia lì c'è stato un fatto episodico (certe volte sono le cose inattese che decidono), cioè in questa dieta il legato era il card. Morone vescovo di Modena, al quale erano state date certe istruzioni, ma un certo punto la dieta sembrò votare a maggioranza per la sede a Trento, anche se questa non era prevista come conforme alle istruzioni date al legato papale; però il Morone seppe, con molta abilità, riversare alla centrale romana questa possibilità che finalmente stava maturando e, nel '42, si ha la convocazione del Concilio a Trento. Si ebbe anche una preparazione alle operazioni (1542), fu mandato il vescovo di Cava dei Tirreni a studiare la situazione. Egli trasmise a Roma una serie di dati a proposito della città e dei luoghi: il Duomo, la pianta del Duomo come possibile sede delle sessioni conciliari, la pianta del Castello del Buon Consiglio (dove si pensava che eventualmente nei momenti culminanti potessero anche convenire papa e imperatore) e una descrizione, per noi molto interessante, dove dice che la città di Trento era articolata, anche nel suo statuto comunale, in quattro parti. Non sono quattro parrocchie, sono quattro distretti urbani: quello di Santa Maria, quello di san Benedetto (che non è mai stato parrocchia), quello di san Pietro e quello di san Vigilio. Quattro distretti urbani, di cui tre italiani e uno tedesco, quello di san Pietro. Tutto questo al punto tale che nelle proposte del vescovo di Cava del 1542, si insinua anche la possibilità, se ce ne fosse stato bisogno, di ripartire secondo gruppi nazionali gli intervenienti al Concilio a Trento, per evitare litigi o difficoltà; infatti questa ripartizione in distretti poteva anche ripartire i provenienti secondo nazione. Fu anche mandata a Trento una delegazione col cardinal Pole, l'inglese, bandito dall'Inghilterra da Enrico VIII, però la cosa non ebbe poi corso.
    La convocazione a Trento è del '42 ed è, in questo contesto, studiata molto bene nei particolari, però in realtà scoppiò ben presto la guerra tra Carlo V e la Francia e tutto questo sospese la situazione fino al 1544 quando si ebbe finalmente la vittoria di Carlo V sulla Francia con una condizione nell'armistizio che obbligava la Francia a partecipare al Concilio quando e come l'imperatore avesse decretato.
    A questo punto, anche la Santa Sede affrettò la riapertura del Concilio. La vera convocazione, decretata per primavera del 1545 nella domenica laetare, era nata in questa occasione, con la gestione politica dell'imperatore che trovava modo di far venire al Concilio anche quelli che non ne avevano voglia, tanto più dunque i principi germanici.
    Forse basta un accenno a questo, perché il primo e il secondo periodo del Concilio in realtà sono da vedersi nel contesto di questo grande tentativo di ricomporre l'unità: un concilio per ricomporre l'unità religiosa dove naturalmente non basta definire delle verità, che, definite in modo rigido, piuttosto sono fatte per differenziare, per tagliare con quegli per anatema sit, ma per ricomporre tutto il discorso della riforma.
    Comunque con questi termini, non nell'aprile, ma nel dicembre, non nella domenica laetare, ma nella domenica gaudeti, il 13 dicembre del '45 il Concilio finalmente poté aprirsi. Con tutta questa variazione di programmi però, dove dalle diverse parti si praticano tendenze diverse.
    In realtà le prime sessioni sono state dedicate al programma, alla rifinitura del programma, e il punto programmatico più essenziale era: dogma o riforma.
    Si era arrivati in Concilio (anche se non era certo la preferenza della Santa Sede) a definire che ad ogni tappa di lavoro, per ogni sessione, si doveva approntare un capitolo sia della dottrina di fede, sia del campo della riforma. Dopo alcune premesse, il Concilio ha deciso in partenza la base su cui discutere: la sacra scrittura, fede nella sola scrittura, quale scrittura, quale traduzione, che autorevolezza dare e non dare alla scrittura e qui contemporaneamente il grosso tema, che ancora oggi costringe a riflettere, della tradizione.
    Attenti a questa parola “tradizione”, ancora oggi! perché c'è dentro di tutto, ma e c'è dentro anche quella cosa che è più autentica, cioè la vitalità della Chiesa, e lì si è impigliato molto il discorso.
    Parlando di riforma, però, abbiamo anche delle dichiarazioni abbastanza interessanti: riforma della predicazione, uso più largo della scrittura nella istruzione cristiana, ci sono dei termini abbastanza buoni, direi anche aperturisti, verso le istanze protestanti, se vogliamo chiamarle così, al punto tale che lo stesso card. Cristoforo Madruzzo, che ha partecipato molto intensamente a queste parti, è stato, anche da chi stava al polo apposto, sospettato di filo-luteranesimo. Non ci voleva tanto per crearsi certi sospetti.
    Poi il tema del peccato originale, e poi il grosso tema della giustificazione. Certo, nel contempo, andava di pari passo tutta una politica europea che stava organizzando una forma di resistenza militare contro i prìncipi protestanti in Germania, con l'alleanza dello stato pontificio, e qui, nell'estate del '46, sono passate le truppe pontificie, alleate con l'imperatore, che dovevano sconfiggere i principi. Qui c'è sempre il calcolo di Carlo V: se non vengono a Trento per amore, cerchiamo di portarceli con la forza.
    Tutto questo è andato rallentando e prolungando molto le discussioni, tanto che il tema della giustificazione è andato trascinandosi fino alla fine dell'anno e solo nei primi giorni del '47 si è avuto il grande decreto della giustificazione, decreto più che sistematico, più che digerito anche concettualmente, senza dubbio; qualcuno avrebbe anche detto che se l'avessero avuto vent'anni prima evitava tutte le fratture religiose.
    Però già qui, nel campo della riforma, all'ultimo momento, dieci giorni prima della scadenza della sezione, qualcosa tanto per dire, ma tutto sommato, ben poco.
    E così, sbloccato il grosso nodo della giustificazione, si cominciava la discussione dei sette sacramenti, prima dei sacramenti in genere, la settima sessione (mi pare ancora nel gennaio) e poi sarebbe stato il caso dei singoli sacramenti: il battesimo, la cresima e giù, uno dopo l'altro i sette sacramenti.
    Senonché nel marzo del '47 a Trento, scoppiò un po' di epidemia, febbre petecchiale, tifo petecchiale. Non mancarono naturalmente i clinici che dichiararono un pericolo di epidemia che travolgeva tutti. Da questa situazione, e dai i vescovi italiani che non stavano volentieri a Trento, spunta la proposta di punto in bianco, senza neanche sentire cosa pensavano a Roma, che il Concilio stesso venga trasferito d'urgenza a Bologna, nello stato pontificio, tutto tranquillo.
    Senza saperlo, il Concilio si trasferisce proprio nei giorni in cui in Germania la grossa operazione di Carlo V arrivava ad avere un successo militare: la battaglia di Bulkner, la vittoria sui protestanti. Finalmente l'imperatore aveva in mano la possibilità di obbligare in armistizio i principi germanici a partecipare al Concilio a Trento come si erano impegnati da gran tempo. Così, naturalmente è tutto sospeso. A Bologna si resta a discutere invano, c'è stato un certo lavoro teologico da parte delle commissioni, ma i lavori ristagnano fino alla morte di Paolo III nel '49 e alla elezione di Giulio III, che era il primo legato papale a Trento. Allora, finalmente si riprende, ma nel frattempo la situazione in Germania si era fatta molto critica.
    (Adesso devo riassumere in due parole perché vedo che il tempo mi scappa, ma avete capito come in realtà sia tutto da rifare.)
    Questa impostazione del Concilio per riuscire a ricomporre l'unità religiosa in Germania è ancora la linea dominante per il secondo periodo del Concilio. In quel contesto è proprio Giulio III, che da card. Del Monte aveva favorito l'infelice trasferimento a Bologna, a riportare il Concilio a Trento e a Trento riprende adesso il lavoro sull'eucarestia, sulla presenza reale, sulla penitenza e l'estrema unzione.
    Però dentro il Concilio c'è anche un certo disappunto perché i temi della riforma vengono sempre un po' snobbati. Tanto più che come legato papale al Concilio c'è un cardinale solo, ma è un po' tirannico. C'è malcontento dentro il Concilio. Anche da parte di coloro che sono disposti a sostenere la posizione primaziale del papa, si è a disagio. Gli spagnoli di sessione in sessione si lamentano di dover tornare a casa burlati: ce l'han data da intendere che si faceva anche la riforma e non la si fa!
    In questa situazione nei primi mesi del '52 il Concilio già ristagna. Che decide tutta la vicenda, ed è questo che forse non è stato ancora interiorizzato da parte cattolica, è il fatto che, nel frattempo, con l'aiuto della cattolicissima Francia, i principi protestanti di Germania hanno inscenato di nuovo la ribellione contro l'imperatore e hanno scatenato la guerra civile rovesciando quella situazione di prevalenza su cui l'imperatore contava per costringerli a venire al Concilio e ad accettarlo.
    Il secondo periodo è naufragato così di fronte alla paura, anche fisica, di un arrivo dei lanzichenecchi protestanti che stavano già invadendo la valle dell'Inn, per cui l'imperatore da Innsbruck si è rifugiato al di qua del Brennero e, attraverso la Pusteria, in Carinzia.
    Tutto crollava da parte politica, ed è qui in realtà che si consolida la divisione religiosa della Germania. In una situazione drammatica quanto mai, che costringe anche i due fratelli d'Asburgo, Carlo V, per un verso, e il fratello Ferdinando (che ha il compito di re di Germania), a fare un armistizio con i protestanti, dove ovviamente la prima clausola è: “lasciateci in pace in campo religioso”.
    Tutto questo ha poi il suo punto nodale a livello di legge generale dell'impero germanico nella pace di Augusta 1555 nella quale si afferma il principio che la libertà religiosa appartiene ai principi, a coloro che hanno rango di principi sovrani dentro l'impero, i quali possono scegliere quella confessione religiosa che gli garba, per conto loro, e imporre al territorio la soluzione scelta: cuius regio eius religio.
    La rottura religiosa in ambito germanico è databile a questo punto. Per quanto riguarda il Concilio di Trento a questo punto nessuno più ne parla. Perché a Roma il papa Paolo IV, molto deciso in senso di volontà di riforma, ma di un determinato tipo di riforma, certamente non si sogna neanche lontanamente di riferirsi al Concilio.
    Nel frattempo in Europa la situazione religiosa degenera, nasce un altro problema che non è tanto quello della Germania ma è quello della Francia, la cattolicissima Francia, che per ragioni politiche e culturali sta per contattare i calvinisti. Quindi alla morte di Paolo IV, il suo successore, Pio IV, si trova nella situazione di dover affrontare di nuovo una istanza conciliare perché la Francia, anche la Francia cattolica, è conciliarista, è quella che conserva gli ideali sinodali del tempo di Costanza, l'autonomia delle chiese locali.
    Per non perdere anche la Francia si convoca di nuovo il Concilio discutendo molto se è il caso di chiamarlo continuazione del Concilio di Trento, sospeso per disperazione nel '52, oppure se chiamarlo un Concilio nuovo: in realtà è l'una e l'altra cosa. Nella bolla papale che lo riconvoca si evita accuratamente di pronunziarsi sia in un senso come nell'altro. Acciocché tutti lo vedano come credono, c'è solo la coincidenza nel luogo e la ripresa dei lavori lì dove si erano fermati nel '52 che lo classifica Concilio di Trento. Anche qui il luogo ha un suo significato, non c'è dubbio.
    L'ultima fase del Concilio è quella dove tra cattolici tradizionali si parla un po' meno e che, anche nelle forme esterne di celebrazione, ha lasciato tracce minori. Invece, a mio avviso, è in forza del terzo periodo che il Concilio di Trento è stato quello che è, per di quello che è riuscito a realizzare pur tra mille difficoltà e crisi fortissime.
    Proprio perché, per un verso erano arrivati i francesi, con idee molto difficili da comporre, però non protestanti.
    Badate bene, che se c'è un tema che nel terzo periodo era pronto continuamente a saltar fuori e che la Santa Sede per prima ordinava che fosse accantonato, che non fosse messo sul tavolo, quello è proprio il tema della supremazia del papa sopra i vescovi (a noi parrebbe la cosa più naturale del mondo). Perché si sapeva che con la preponderanza soprattutto dei francesi, conciliaristi, la discussione sarebbe andata male.
    Tanto per dire, nel Concilio stesso, anche tra il gruppo dei presidenti del Concilio, la differenza di idee e di tendenze era molto forte al punto tale da dividere, per un verso, quelli che si chiamavano gli zelanti, i sostenitori a oltranza della supremazia pontificia e di tutte le cose delle leggi ecclesiastiche e, dall'altro verso, quelli che, pur rispettando la struttura teologica del primato, sentivano l'estrema necessità di modificare e di metter freno a certe competenze della Santa Sede.
    Ne do un esempio soltanto: il problema della residenza dei vescovi e dei parroci, nel luogo dove erano nominati, che troncasse una volta per sempre l'abuso per cui, per finanziare un cardinale in servizio alla Santa Sede, gli si procacciavano tre, quattro, fino a sette sedi vescovili, che lui non serviva. Queste assurdità indubbiamente si son fatte sentire molto forte e avevano portato la vita del Concilio a uno stato di paralisi, al punto tale che il capo degli zelanti, cardinal Simonetta, che aveva la sua residenza nel palazzo Geremia, era riuscito perfino a seminar diffidenza sui suoi colleghi: il primo presidente, il card. Ercole Gonzaga, che risiedeva nel palazzo Turn (l'attuale palazzo comunale) e l'altro, il card. Seripando, teologo principale del Concilio, anche lui cattolico con residenza in via Bellinzago. A questo punto tutto era arenato.
    In realtà, lo sblocco è avvenuto solo con la morte dei due appena adesso nominati, card. Gonzaga e card. Seripando, l'uno il 2 di marzo del '63, e l'altro il 17 di marzo del '63. Le loro morti hanno dato modo e costretto Pio IV a ripensare a tutto il problema della dirigenza del Concilio mandando due cardinali nuovi, Naragero, per un tempo, veneziano buon esperto, ma soprattutto il cardinal Giovanni Morone, guarda caso, quel tale che così, quasi alla gherminella, nel '42 aveva ipotizzato il luogo di Trento come luogo del Concilio, ma anche lui tartassato e non poco dai sospetti dell'Inquisizione in Italia (quattro o cinque anni prima il Morone era sotto inchiesta dell'Inquisizione, imprigionato in Castel Sant'Angelo). Dunque una soluzione tutt'altro che integralistica, ed in realtà Giovanni Morone, nuovo presidente del Concilio di Trento fu quello che, tenendo maggior conto dei postulati di riforma e cercando di comporre i contrasti e trovando una soluzione è riuscito a portare in porto il Concilio dal luglio al dicembre. Mi fermo qui, ma capite quante cose ci sarebbero ancora da discutere.
(trascrizione da registrazione sonora)